mercoledì 30 gennaio 2013

Tempo taglia 52

15 giorni secchi.
Si chiamerebbe "blocco dello scrittore". Se non fosse che io non sono una scrittrice.
Non è nemmeno "blocco del blogger", perché oltre a suonare male è pure inesatto. Non sono una blogger. Cioè un po' lo sono perché questo è un blog. Però non sento di avere il "blocco del blogger".
È più il "blocco di una trentenne che ha un figlio di quasi sei mesi e un blog su cui riversa fiumi di parole quasi inutili e che non riesce ad aggiornarlo perché la sua giornata sfortunatamente dura solo 24 ore, ma solo 13 o 14 percepite, nelle quali lavora a tempo essenzialmente pieno e fa altre milleduecentotrentatré cose". Ecco.

Mi sento un po' in colpa verso questo coso qui, il blog appunto. È come avere un cagnolino che alla prima difficoltà abbandoni sul ciglio della strada. Perfino mia madre, che ancora non ha capito a cosa serva scrivere di me e del nipote su un computer a fruizione di non si sa bene chi, mi ha detto: "ma il blob non lo scrivi più?".
Mi sento ancora più in colpa quando mi guardo intorno e vedo mamme molto sprint che sono sempre sul pezzo e aggiornano di brutto. Un post al giorno minimo e passa la paura.
Il figlio si alza in piedi? Loro aggiornano. Il figlio dice "palla"? Aggiornano. Fa la cacca? Sbava? Rutta? Aggiornano imperterrite. Tenaci. Delle macchine da guerra. Beate loro.

E io le capisco. L'istinto ce l'ho pure io. Certe volte guardo quell'elemento buffo che mi arreda la casa da agosto e lo noto fare delle cose divertentissime. Una decina di giorni fa ad esempio ha cominciato a "lallare" con grande convinzione. Appena sveglio, steso sul letto accanto a me, mi fissava come se avesse visto Luke Skywalker al supermercato e di botto è partito: "Da. Dada. Dadaaaa-A-eeeeeDDe. DU. Aeeeeh."
Gli ho risposto "Mi avevi già convinta al primo Da". Lui ha continuato a disquisire per circa mezz'ora. A parte la pelata, le gengive senza l'ombra di un dente e un debito di 100cm in altezza, sembrava un adulto.
Ogni mattina va così. Allora mi sono detta: che bello, mo' lo scrivo subito sul blog. Poi però ogni volta mi assale un doppio freno.

Quello interiore: tutti i bambini dell'età di Vittorio fanno esattamente le stesse identiche cose. Mica vorremo noi madri illuderci di avere il bambino più intelligente. Il più sveglio. Il più simpatico. Quello che si alza prima. Quello che mangia la pappa in anticipo. L'ingenuità dei primi tempi l'ho messa nel cassetto quando mi sono guardata intorno e ho visto gli altri nani. Cloni di mio figlio. Un pianeta popolato di alieni piccoli e tutti uguali. Non c'è scampo.

Poi il freno esteriore: come dicevo in cima, il tempo che non c'è. In questa fase della mia vita mi sento come quelle grassone che a un certo punto dimagriscono decine di chili ma quando vanno a comprare i pantaloni nuovi continuano a chiedere la taglia 52. È una roba mentale, credo. Il non volersi disancorare dalla propria coperta di Linus. Nel mio caso specifico temo di non voler accettare che le mie proporzioni temporali siano definitivamente stravolte.
Ma mi hanno assicurato che passa. E io mi fido.

martedì 15 gennaio 2013

Vittorio e i tulipani

Oggi che quasi piove mi è venuta voglia di fiori, di tanti fiori colorati. Da mettere un po' ovunque, in giro. Da piantare, anche. Che quel mio angolo d'aria fresca è diventato un piccolo cimitero e ogni volta che mi affaccio, con Vittorio in braccio e un caffè nell'altra mano, mi viene da chiudere le persiane per non fargli vedere quella miseria.

Sono ferma a un semaforo, seduta in macchina, ad aspettare. Le quattro frecce che proiettano un arancione tenue e intermittente sulla macchina di fronte. Lo sguardo catatonico. Sul cielo senza sole, mille sfumature di grigio, solo grigio ovunque.

Dall'altra parte della strada larga c'è un ospedale coi muri ocra acceso, ma pur sempre grigio, molto grigio. Con tanta gente che entra ed esce, e un viavai di ambulanze che anche loro entrano ed escono, ma senza sirena. Quattro o cinque bandiere dei sindacati che sventolano tristi a dire che le cose la dentro non vanno proprio benissimo.

Alla fermata gli autobus scaricano fiumi di persone prese ognuna da fiumi di pensieri. I vestiti scuri, i volti scuri, gli sguardi un po' persi. Per la gran parte è gente che italiana ci è diventata per forza, lo dicono la pelle, gli occhi.

Poi un camioncino rallenta al mio semaforo, è gonfio di fiori. Sembra disegnato. spacca in due tutto quel grigio. È fermo accanto a me, mi sembra di sentire il profumo oltre il finestrino chiuso. Ci sono ciclamini di tutti i colori e tulipani rossi, di un rosso che resta vivo nonostante tutto il grigio che c'è intorno. E penso sia per questo che i tulipani sono i miei fiori preferiti. Coi loro gambi cicciottelli che si afflosciano sotto il peso di tanto colore, io li amo. E mi è tornata voglia di riempire ogni angolo della mia casa con mille tulipani rossi. Portarne uno a Vittorio, che ho lasciato poco fa nel suo lettino. Dormiva così profondo che non ho avuto il coraggio di dargli un bacio di "a dopo".

Vittorio i tulipani ancora non li ha mai visti. Ma gli piacerebbero, ne sono certa.

Poi quando riparto mi lascio dietro tutto. Ma quei fiori no.

venerdì 11 gennaio 2013

Analisi di un verbo utile

sbolognare

[sbo-lo-gnà-re] v.tr. (sbológno ecc., 1ª pl. sbologniamo) [sogg-v-arg]
  • 1 pop. Sbarazzarsi di qlco. di non gradito rifilandolo ad altri: s. la merce peggiore
  • 2 fam. Togliersi di torno una persona fastidiosa: s. un rompiscatole
  • sbolognarsela
  • v.rifl. [sogg-v] fam. Andarsene via di soppiatto, svignarsela SIN scapolarsela
  • • a. 1933

     Etimologia (da Gabrielli):
    In origine "metter fuori una moneta falsa" (perché a Bologna si facevano oggetti d'oro falso o di bassa lega); poi, gener. "appioppare", "dar via", "rifare", "spacciare" (...); 
    anche, piú genericamente, "cacciar via", "allontanare": "Lo sbolognò fuori di casa come un appestato" (...)

     Poniamo il caso che io voglia coniugare il verbo in forma transitiva.
    Soggetto: io.
    Verbo: sbologno.
    Complemento oggetto: particolarmente calzante l'esempio al n. 2, in formula famigliare --> un rompiscatole.
    Complemento di termine (a chi?): ai nonni.

     Ma non mi dispiacerebbe nemmeno coniugarlo al riflessivo per un paio di giorni. Giusto il tempo di dimenticare le ultime tre notti, scivolate via nel fallace tentativo di addormentare quell'esserino all'apparenza innocuo che dalle ore 01.30 alle ore 07.00 è inspiegabilmente dotato di energie sansoniche.

giovedì 10 gennaio 2013

La tentazione del paragone

Stavo ripensando a un paio di mattine fa, quando ho portato ET a fare il vaccino. Più precisamente, il richiamo dello Pneumococco.

Il centro vaccinazioni è un luogo antropologicamente interessante. Mentre aspetti che tuo figlio venga bucato come uno scolapasta, puoi osservarlo in contemporanea con altre decine di extraterrestri e fare la cosa più sbagliata del mondo, ma anche la più inevitabile: paragonarli.

Quando arriviamo, in sala d'attesa c'è una mamma molto giovane. Bellissimi capelli lunghi e scuri. Scarpe da ginnastica - un po' in sovrappeso - sorriso dolcissimo - marsupio Babybjorn - non è accompagnata da nessuno. Cinque elementi che me la rendono subito simpatica.

La sua bimba è al primo vaccino, ha poco meno di tre mesi. Si chiama Alice ed è vestita di rosa dalla testa ai piedi, cosa che in generale non amo granché. Ma sembra una bambolina di pezza, sonnecchia beata sul seno della madre. Penso: "allora gli angeli esistono". E' in quel momento che mio figlio decide di riportarmi coi piedi per terra, della serie tumadreseiunfilopiùsfigataiosonovittoriononaliceleièl'angeloioloscarrafone, e di attaccare con una delle sue parti migliori. Un pianto lagnoso, monotono, acuto. Ma mica ha fame, mica ha sonno. Così. Giusto per rompere un po' i maroni a tutti. Si calma solo per un paio di minuti, il tempo di prendere a mazzate un giochino della sala d'attesa: un cruscotto finto. Girare il volante non gli interessa, non ha senso. Meglio distruggerlo di mazzate.

Ovviamente sveglia la povera bimba, che da angelo vero qual è, dà un'occhiata bonaria al rompitore amatoriale di maroni, si interroga silenziosa, si gira dall'altra parte e continua a dormire. Santa creatura. Lì scatta il primo flebile istinto di madre snaturata, quello del paragone. Ma per evitare di perdere in partenza, mi racconto subito una bugia bianca: i due esseri in realtà non sono affiancabili. Lei è uno scricciolo ed è due mesi più piccola del mio scarrafone.

Mentre allontano dalla mia mente qualsiasi brutto pensiero sul come zittirlo, si affaccia nella stanza un'altra mamma. Sporge la testa, guarda un velocemente in giro, scannerizza la mamma dolce: parte dalle scarpe e arriva fino al mento. Ritira la testa come una tartaruga e un istante dopo fa ingresso spingendo la sua piccola astronave milionaria. Un ovetto ammobiliato. Sonagli, rivestimento di spugna con rifiniture di cotone. Portabicchiere. Borsa in tinta. Tasca con peluche.

E' lei. La mamma Napisan. Coda alta tiratissima. Leggings neri. Stivale in cuoio di Hermés con tacco basso. Piumino Moncler attillato. Borsetta-marsupio di Vuitton. Orecchini di perla. Sembra appena tornata da una battuta di caccia alla volpe. Dietro di lei emerge una ragazza filippina che tiene in braccio la fotocopia in piccolo della madre. Si chiama Diletta. Cinque mesi. Cicciona. Sembra perfino un maschio. Una sfidante perfetta.

Il caso vuole che la simpatica creatura afferri il gioco che Vittorio ha appena finito di tartassare. Faccio la vaga ma in realtà la sto aspettando al varco, pregando silenziosamente che non faccia ciò che temo. E invece lo fa. GIRA IL VOLANTE. Con una calma che non ho nemmeno io a trent'anni quando uso quello vero. Gira lo stramaledetto volante. E la madre le sussurra un sostenutissimo "brava, amore".

Mi vorrei sotterrare, ma non ho il tempo perché mi chiamano per bucare il sedere di quell'incapace di mio figlio che invece di girare i volanti li spacca come un cavernicolo.

lunedì 7 gennaio 2013

Corri, mamma, che fai tardi.

Poi arriva il giorno in cui devi tornare al lavoro. Sei mesi che non ti spieghi come abbiano fatto a volare via così. Veloci, spossanti, densi. Una scala di quelle ripide ripide, strette, coi gradoni alti che fai fatica a salirli, ma che quando arrivi in cima hai il fiatone ma sei soddisfatto. Perché la cima è svegliarti il 7 gennaio che tuo figlio ha quasi cinque mesi. E' cicciottello e felice, quando gli fai il solletico non sorride più, ora ride. Tanto. Di gusto. Ti prende le dita con quelle sue mani lunghe ma ancora paffute e le allontana da sé come un adulto, ed è come se ti dicesse "eddai mamma non farmi ridere così".

Tu lo vesti, lo porti a fare il richiamo del vaccino (perché le cose ti capitano sempre così, tutte insieme). La prima volta pioveva forte, oggi invece il sole. Un sole tiepido e accogliente. Che ti fa venire voglia di portare quel fagotto un po' in giro, all'aria, magari al parco. Ma non puoi. Hai avuto cinque mesi per farlo. E invece oggi che ti va, non puoi. Perché torni a lavorare. E non sai da dove cominciare.

Ci hai messo tanto ad abituarti all'idea di lasciarlo "solo", dopo quasi 160 giorni di un tu-e-lui fitto fitto, senza intromissioni, senza sbolognarlo a nessuno, senza aiuti, solo tu-e-lui. Ci hai messo tanto a dire a te stessa "vabè, ma è giusto così. io mi riprendo la mia vita e lui cresce lo stesso, anzi un distacco in questa fase è cosa buona e giusta per entrambi".

Ma una notte ti è venuto un attacco d'ansia, il primo della tua vita. Con il sudore freddo, il cuore in gola, il respiro corto. E non ti davi pace, perché non è da te. Perché tu sei una tosta, una che queste scene non le fa, perché sei una evoluta, perché vuoi che lui cresca forte e indipendente, non vuoi il cocco di mamma che ti si nasconde sotto la gonnella, il bamboccione non lo vuoi, e certe cattive abitudini - tu lo sai bene - si prendono da subito. E quindi si lavora fino all'ultimo, con un pancione enorme, e si torna al lavoro il prima possibile. Perché è giusto così.

Eppure la pancia quella notte se n'è andata per conto suo, il cervello non contava più niente. E allora solo sudore freddo, fiato corto e cuore in esplosione. E il timore che il 7 gennaio mattina sarebbe andata nello stesso modo.

E invece no. Dopo il vaccino, e lui che ti si addormenta addosso stremato ma senza aver versato una lacrima perché è un duro, lui, lo riporti a casa. Si sveglia, lo allatti. Ti godi quel contatto intimo, l'ultimo da "mamma esclusiva", gli dai baci sulla fronte.

Lui è insolitamente eccitato. Sgambetta, vocalizza, fa rumori nuovi con la bocca. Come dire: "Mamma, guarda che io sono cresciuto. tu non ti accorgi di quanto io sia cresciuto".

Tu sei insolitamente rilassata. Ti prepari, tacco 12, un jeans che ti entra a mala pena. Un boccone leggero al volo perché oggi si cambia tutto, compresa la dieta. Qualche indicazione alla nuova tata, quella che da pochi, pochissimi giorni maneggia tuo figlio con calma e sicurezza. Sarà per questo che le indicazioni sono distese e veloci: "Marianna, sai tutto. Se vedi che ha ancora fame dagli altro latte, sai come fare. Dopo il pisolino misuragli la febbre, col vaccino potrebbe salirgli qualche linea. Per qualunque cosa chiamami".

Il suo sorriso rassicurante aumenta la tua convinzione che non avrai di che preoccuparti.

Un ultimo saluto a Vittorio. "Fritz, amore mio, vado via. Ma torno quasi subito, nemmeno te ne accorgerai. Un riposino, una pappa, un po' di giochi e sono di nuovo tra i piedi".

Vittorio sfodera un enorme, sdentato sorriso. "Ciao mamma, corri che fai tardi".

La giornata di lavoro sta per finire, tu non vedi l'ora di riabbracciarlo e quella nottata di cuore in gola ti sembra lontana una vita.

giovedì 3 gennaio 2013

Un capodanno un po' così

Potevano essere una bella fine dell'anno e uno splendido inizio 2013. Ma non avevo calcolato il tempismo neonatale verso lo sfracassamento zebedeale materno.

Dopo quasi 5 mesi di martirio, contavamo i giorni che ci dividevano da questa piccola vacanza in campagna. Sole, camino acceso, un bel calice di vino rosso e tanto, tanto sonno. Invece si è trasformata nella quattrogiorni più lunga della mia vita.

29 dicembre mattina, ore 9.00.
"Amore stiamo via pochi giorni, inutile sovraccaricarci. Prediamo due cose e via".

Tre ore e mezzo dopo giocavamo ancora a tetris con le valigie nel portabagagli, ET in modalità Allarme Attivo, e la signora della casa di fronte affacciata alla finestra che ci faceva ciao-ciao con la manina e un "siete penosi" stampato in faccia.

Alle 12.30 finalmente giriamo l'angolo. Mi allaccio la cintura. Ci guardiamo e domandiamo all'unisono: "il marsupio l'hai preso tu?"

Cinque minuti dopo, marsupio sul sedile posteriore, stesso angolo: "Oddio, mi sono dimenticata l'anello sul lavandino. E se cade?"
"E chi dovrebbe farlo cadere?"
"Non lo so, l'aria."
Non mi ha nemmeno risposto. Siamo tornati a prenderlo.

"Ok, ora abbiamo tutto?"
"Portafogli: preso. Anello: ora ce l'ho. Carrozzina e ovetto: sì. Vittorio: urla quindi c'è. Cambietti: per un mese in Antartide. Ok, dovremmo avere tutto."

Stiamo per attraversare il ponte e io sussurro timidamente... "La copertina di pile di Vittorio..."
"EEEEddai la copertina no! È bagnata sullo stendino! No dai non torno."
"E se si ammala? La facciamo asciugare in campagna..."

Un'ora dopo e umidità nell'abitacolo al 99%, eravamo al primo autogrill dell'autostrada con un GranPraga tra i denti e una confezione di ovetti Kinder da 12 sotto il braccio. Da qui dovevo immaginare che la situazione non sarebbe potuta migliorare.

Eppure le premesse c'erano tutte. Siamo arrivati che era ancora giorno, l'aria fredda e frizzante, un cielo terso e azzurro intenso, l'odore di terra bagnata e di brace tipico dei paesi di campagna.

ET, che ha dormito tutto il viaggio, si sveglia non appena rallentiamo per entrare nella villa che ci ospiterà. Da lì in pratica non ha più dormito per quattro giorni.

Il 30 scorre lento e piacevole, una breve gita a Montepulciano, poi di corsa a prepararci per la cena. Trenta invitati, per lo più adulti. Buffet meraviglioso, servitù in livrea. ET in modalità IoNonMiDivertoMancoUnPo' Attivo. La cena si è svolta più o meno così: mentre tutti pasteggiano a champagne e finger food, noi tre mettiamo in atto il meccanismo a catena "io imbocco lui - tu imbocchi me - io imbocco te". Il tutto in anticamera, al buio, saltellando. Alla fine della cena sembravamo appena tornati dalla maratona di New York. A nuoto.

La notte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio sto tentando di rimuoverla per non soffrire, ma ci vorrà del tempo. Abbiamo provato ad addormentare il disgraziato dalle 20 alle 23.30 senza successo. Alle 23.50, mentre gli altri si spostavano in giardino per il conto alla rovescia e i fuochi d'artificio, lui si è ricordato che in fondo "ok" ora aveva un po' di sonno.

La mezzanotte se n'è andata così. In una stanzetta al buio (di nuovo), con un gomito poggiato sul davanzale della finestra a guardare gli altri brindare, e l'altro braccio a dondolare la carrozzina del mostro. E sussurrarci "buon anno" nell'orecchio, piano piano.
Si è addormentato alle 00.02 e si è svegliato alle 4, cioè mentre ci infilavamo a letto in punta di piedi come la Pantera rosa. Non ha più dormito.
Alle 13 ci siamo ritrovati tutti intorno al tavolo di una tarda colazione di capodanno, gli altri belli riposati e noi ridotti come stracci. Vittorio sulle mie ginocchia, vestito con tutina bianca e rossa, bavaglino di velluto scarlatto e pantofoline in tinta con orsetti. Un batuffolo.
L'ho abbracciato e con un sospiro ho detto: "vabè dai, il peggio è pass..."

PRRRRRRRROOOOOOOTTTTTTTSSSSHHHHHPPPRRRRSSSSSSSSHHHHHH

Aveva l'espressione di chi viene colto con le mani nella marmellata. Un fiume di cacca dalla schiena ai piedi. Un'enorme macchia ambulante. Sulla tutina nuova del nonno, sui calzini, sulle orecchie degli orsetti. Sui miei pantaloni, sulle mani, sulla camicia.
Dalla tavola si è levata l'unica frase possibile: "speriamo non sia un anno di merda".

Un'ora, un bagnetto e un pianto infinito dopo, ET era di nuovo profumato e calmo in braccio al papà. Ma mugolava come il bassotto del nostro vicino.
"Non senti che versi strani che fa? Mi sembra anche un po' caldo".

39 di febbre. Il mostro. Il primo dell'anno si fa venire la prima febbre della sua brevissima esistenza. Alla faccia della copertina di pile.

39-tachipirina-36-39-tachipirina-36-39-tachipirina-36.

Un ciclo che non si è ancora interrotto. E intanto lui mugola come il bassotto del vicino. Vocalizza. Piange. Poi ride. Gioca, urla, si guarda intorno. Si gira e rigira nella culla. Mi osserva, gli occhi rossi e lucidi fissi nei miei, in silenzio. "Guariscimi, madre". Un alieno malaticcio. E io lo amo.