giovedì 26 settembre 2013

Come innamorarsi di una lampadina

Fino a ieri erano importanti nella tua vita quanto il fantacalcio. Ti accorgevi di loro solo quando ne esplodeva una in giro per casa, magari sul tuo comodino. Solamente a quel punto diventava vitale averci a che fare, perché altrimenti non vedevi più una mazza e rischiavi lo sfracello.

Oggi che arredi una casa, la TUA casa, ti informi. Guardi. Le osservi. Stai alla frutta, è chiaro, ma ormai non puoi più tornare indietro. E così scopri che odi quelle al neon. E' più forte di te. Ci sono ambienti contemporanei arredati con gran gusto, in cui stanno anche bene. Ma tu le odi lo stesso, sono proprio brutte. Fredde. Non fanno per te.

Poi inciampi in quelle grandissime, trasparenti, identiche alle classiche lampadine di un tempo, ma in versione gulliveriana: i bulbi. E te ne innamori in maniera irreversibile al punto da chiamare l'elettricista e far spostare il punto luce sul soffitto per vederle calare dall'alto. Tre. Il numero perfetto. Ora in cucina c'è di nuovo polvere e calcinaccio ovunque ma tu te ne freghi, perché quando ti affacci eccole là, appese. Si riflettono su una bella specchiera in legno marino pitturato di bianco, che hai comprato da un rigattiere tanti mesi fa e finché non l'hai vista attaccata al muro credevi di aver fatto il peggior acquisto della tua vita.

Allora navighi e navighi tra Pinterest e il web, in generale, e scopri che quello stile così, le lampadine a vista, casuali, sparpagliate, coi fili neri penzoloni o sui tralicci, ti piacciono sopra ogni cosa.

E le vuoi mettere da tutte le parti: in bagno, in camera da letto, in salone, nel corridoio. Ma Lui ti argina e alla fine ti convince: "mica sei un rappresentante di lampadine, tu". E', vero. Non sei un rappresentante di lampadine, tu. Quindi ti accontenti di quelle in cucina e trascorrerai tutta la prossima vita seduta sui fornelli a guardarle.
























Ps: le mie le ho comprate a Roma, da Piccola Bottega. Lì ho potuto scegliere tipo di bulbo e colore/tipo di cavo. Tornerò a parlare della bottega perché mi sta per realizzare un lampadario splendido.



martedì 24 settembre 2013

Il vocabolario secondo Vittorio. O di un bimbo di 13 mesi che parla anche troppo

Mama = madre

Papa = padre

No = affermazione negativa. A voler dire prevalentemente "non si fa, lo so, me l'hai già detto", accompagnata da dito puntato verso prese della corrente e oggetti contundenti/pericolosi/a rischio caduta

Zi =  affermazione positiva, usata in rarissime occasioni, proprio come fanno il padre e il nonno

Titi = teeth (cioè denti, in inglese. solitamente abbinato ad uno smagliante sorriso per indicare a noi umani stolti di cosa si stia parlando). Se unito al gesto dell'indice che scorre su e giù sulle gengive, significa "mi sono lavato i denti e me la sono anche cavata niente male"

Papo = scopa, utensile attualmente scambiato per un aratro, puntato in avanti e utilizzato in giro per casa come contrappeso alla sua camminata alquanto incerta. Se lungo la via incontra foglie od oggetti di vario tipo esulta ed esclama "papo iiiiihhhh". Nota di servizio: il padre del nostro fine linguista non sembra entusiasta che la sua autorevole figura sia associata a livello onomatopeico alla scopa.

Nunù = nonno

Dsudsu = Giorgio, cioè sempre il nonno. Probabilmente usato in circostanze in cui desidera prendere distanza dalla figura del suo avo.

Anna = Mariana, la tata.

Bo = ball (cioè palla, in inglese)

Babi = ho fame (da Baby, la governante dei nonni, che di mattina gli fa spesso trovare il biberon caldo e pronto al suo risveglio. Poverino.)

Atti = grazie. Termine adottato esclusivamente in risposta a chi gli dà da mangiare.

Toto = pronto buonasera sono Vittorio, come posso esserle utile? (quando risponde al telefono). Accompagnato da pressione multipla di tasti, citofono compreso, motivo per il quale la visita dei ladri è solo questione di ore.

Zazà = ciao ciao. Accompagnato da gesto della mano.

Babà = bye bye. Come sopra.

Pirupiru = ombelico. quasi sempre condito da gesto che indica un punto indefinito in corrispondenza dell'addome.

Brum = qualunque cosa si muova su due ruote, bicicletta e passeggìno inclusi.

Bù (solitamente esclamato con gesto di enorme stupore in seguito all'aver schiantato qualcosa di delicato per terra) = non sono assolutamente stato io, mi chiedo come sia potuto accadere.





Quelle che

Quelle che quando le chiami sembra di averle lì con te, nonostante la distanza.

Quelle che ti dicono "ti prego, sfodera tutto il tuo cinismo e tirami fuori da questa situazione".

Quelle che ogni tanto tirano fuori dal cassetto una vecchia foto scattata al liceo, di qualche vacanza in montagna o di qualche faccia stupida al mare, la scannerizzano e te la mandano.

Quelle che un loro abbraccio ti rimette in sesto dopo una giornata difficile.

Quelle che ti deludono e ti feriscono, ma che da quel momento compilano un quaderno bianco, foglio dopo foglio, giorno dopo giorno, con tutti i motivi per cui ti amano. E poi te lo spediscono.

Quelle che ti chiamano "Pata", "baldolo", "Valti", "brucaliffa". E che quando ti chiamano col tuo vero nome nemmeno ti giri più, perché pensi ce l'abbiano con qualcun altro. O che siano molto arrabbiate con te.

Quelle che ti portano fuori a cena, perché vabè che sei mamma, vabè che hai un uomo, vabè che lavori come un mulo. Ma resti prima di tutto la loro amica cazzona, casinista e amante della vita e del cibo e del buon vino e dei bei posti e soprattutto della loro compagnia.

Quelle che se ne fregano se sia Mc Donald's o Romeo (che ci piace tanto) o una trattoria o un prato col sole o un tramonto in barca o una discoteca tamarra, perché tanto il posto lo facciamo noi perché siamo noi.

Quelle che mi fa male tutto però come faccio a non uscire con voi?. E va a finire che ti incolli un tavolo, le sedie, i piatti, i bicchieri, le posate, la tovaglia con tutti i tovaglioli, e attraversi una delle arterie di Roma a piedi di notte (e una si sfracella per terra con tutta la sedia arancione fluorescente, che rimane lì in mezzo allo stradone, e lei ti chiama da sotto a una macchina e nonostante il tonfo è meravigliosamente composta e pettinata) e ti apparecchi la cena in un parco, vestita di bianco come Barbie novella sposa. Di bianco tu e di bianco le tue amiche (perché solo con loro potevi finire al Rome White Dinner) e di bianco anche tutte le altre centinaia di persone che sono lì con te. Che come te si sono incollate tutto l'amba aradam e si sono apparecchiate e hanno sfoderato ciascuna la propria cena (chi lo sformato di nonna e il vinello della damigiana, chi come noi hamburger e champagne). E hanno riso come dei matti quando ogni tanto arrivava qualcuno sopra le righe. Come quello che sembrava un gelataio e in motorino portava una sdraio (perché a lui piace mangiare comodo). E poi hanno cenato tutti vicini vicini, bellissimi, bianchi, con le candele e le lucine e la voglia di condividere qualcosa che alla fine non ha niente di strano, profuma solo di fresco, aggettivo che a Roma è merce rara. Almeno secondo me.

E allora capisci che puoi pure diventare una vecchia grassa panzona, cellulitica, stanca, moscia e grigia, ma per loro resti sempre tu. La loro amica pazzerella. La loro amica del cuore. Come si dice tra bambine.





























lunedì 23 settembre 2013

Del grasso che se ne va e del baule che voleva essere un armadio.

Ho smesso di suonare il pianoforte proprio quando i vicini di casa non insonorizzavano più le finestre al mio strimpellìo.

Ho smesso di praticare lo sci nautico al lago proprio mentre cominciavo a perdere le sembianze di un'esca viva attaccata all'amo.

Ho deciso che il francese poteva cavarsela anche senza di me proprio quando i francesi non avevano più un enorme punto interrogativo stampato in faccia mentre mi rivolgevo a loro.

Insomma ho interrotto tutto, sempre. Storie d'amore sul più bello, sport, arti, svaghi vari ed eventuali, letture. Tanto da fornire a mio padre nel tempo un potente elemento col quale minare la mia autostima a colpi di "non finisci mai quello che cominci".

Poi invece arriva il fatidico giorno della riscossa.

Il 7 gennaio 2013 lo avevo annunciato: "da oggi dieta e torno com'ero prima di Vittorio".

Otto mesi, dodici chili e venti sogni a base di amatriciana e hamburger dopo, ho portato a termine la mia mission e oggi peso tre chili in meno rispetto all'ottobre del 2011, quando ignara di stare per trasformarmi in una costa concordia spiaggiata, svenivo qua e là e davo di stomaco anche nel sonno.

Foto di allora mi ritraggono col verme solitario, perennemente alle prese con cibi di ogni fattezza. Manuela con la maxi pizza all'autogrill: ce l'ho. Manuela che addenta sei chili di torta al cioccolato: fatto. Manuela che si spara un hamburgerone come se non vi fosse un domani, con sorriso a 50 denti: presente.

Poi a un certo punto ho pensato che non mi sarebbe piaciuto un figlio che intorno ai quattro anni mi dicesse "mamma sei tanto bella anche se sei grassa". I bimbi notano il sovrappeso altrui proprio come i grandi, solo che poi i grandi hanno il buon cuore di tenerselo per sé (o - se sono bastardi - renderlo argomento di conversazione a cena con amici comuni. "Hai visto Maria che panza che ha messo?" "eh sì però hai visto pure quanto magna?"). I piccoli no, sputano fuori tutto senza rete drenante tra il cervello e la lingua. Croce e delizia dell'infanzia.

Vabè. Quindi mio figlio da adesso al massimo dirà "mamma sei tanto bella anche se sei un po' scema". A questo avrò qualche difficoltà in più per porre rimedio. Anche perché è vero.

MA c'è un ma. Quando mio figlio mi dirà così - oltre a beccare una serie lunga di mazzate sulle gengive - potrò sempre dirgli "tu quoque, fili mi. Tu, figlio ingrato come tuo padre, che denigra la sacra arte del recupero. Tu, che a un anno ricevesti in dono un vecchio baule che la tua mamma dalle mani d'oro trasformò in uno splendido armadio. Quella mamma tanto paziente e tenace da trascorrere un'ora in un negozio di vernici e colori. Non un negozio di scarpe. Non un negozio di borse. Non un negozio di vestiti. Un negozio di vernici e colori. Per scegliere la gradazione perfetta di VERDE SALVIA per il tuo armadio recuperato da un baule. E per vedermi umiliare dal titolare al suon di ma lei il concetto di PALETTE non lo conosce?. Tu. Cattivo."

Sì. Ho tutto.

Pennelli due.
Cementite a pioggia.
Vernice Boero color verde salvia, alias codice 49B-40 - fatta ad hoc per me - chili uno.
Carta vetrata metri tre.
Carta adesiva protettiva, rotoli due.
Giornali vecchi, a pacchi.
Buona volontà e pazienza, quanto basta.

Domani si parte. Evvai col DIY. Sparatemi.







giovedì 19 settembre 2013

Comodino e libreria, torna il DIY. E dei pro e contro della nuova dimora

Vabè, dicevamo. La casa nuova. Il marasma. Manco un mobile in giro. E allora le scelte erano due: buttarmi dal terrazzo nuovo - anche lui zozzo incasinato e improponibile - oppure rimboccarmi maniche e cervello ed autoprodurmi un po' di cosette.

Insomma il loop del Do It Yourself è ripartito alla grandissima. Diciamo che al momento mi sono un filino inchiodata sulle cassette della frutta, ma conto di sfogarmi presto su altro (ad esempio su quel meraviglioso baule che mi ha lasciato la vecchia inquilina, di cui allego foto. Diventerà l'armadio di Vittorio). Il fatto è che ho il mercato rionale sotto casa e ogni volta che passo là davanti con la macchina arraffo sei o sette casse di legno. E ogni volta, rigorosamente, Lui mi cazzia dicendo che si vergogna di me - che (testuali parole) "frugo nella spazzatura come una barbona". Lui, che del magico mondo del recupero e dell'arredo non capisce una mazza. Lui, che ha ricevuto in dono un meraviglioso comodino sul quale poggiare le cose che fino a quel momento giacevano per terra. Lui, uomo ingrato.

Dunque un bel comodino con le rotelle. Quattro, chiaramente. 3 euri l'una. bomboletta di smalto azzurro spray, 5 euri. Tempo di realizzazione 20 minuti.

E poi una libreria piccolina. In un paio d'ore era finita. Ho usato direttamente la cementite bianca, una sola passata. Poi ho dipinto le lettere in grigio.
Vantaggio: non ho più i libri negli scatoloni e non ho la fretta di comprare un mobile tanto per comprarlo.
Svantaggio: per ora puzza (è cementite naturale e atossica ma fa un odore repellente) e se non ci metto una vernice flatting opaca probabilmente tra qualche mese sarà ingiallita e non lavabile. Ma chissenefrega.

A proposito di vantaggi e svantaggi, tirando fuori oggetti dagli scatoloni è spuntato un blocco di carta diviso in due, PRO e CON (per gentile concessione natalizia della mia amica Vale). In un momento di grande depressione da tempochecorre/vittoriosenzaunacamerettapronta/nientefrigoperconservarelattefrescoeavocado ho compilato la sua prima pagina. Ed ecco qua. Ho scoperto che in fondo questa casa ha un certo numero di pro che sono altamente competitivi con i contro.

Esempio uno: avere in camera da letto una porta a specchio in ferro battuto che ho disegnato io. Specchio il cui di me riflesso è assai assai dimagrente - il che di prima mattina fa un gran bene.

Esempio due: lo specchio assai dimagrente dà accesso a una cabina armadio. Ancora non ha proprio tutte le sembianze della cabina armadio, sembra più Nagasaki dopo lo sgancio dell'atomica. Però diventerà presto una cabina armadio vera, ed io la sogno da quando avevo sei anni.

Esempio tre: la quasicabina contiene una scarpiera fatta da me medesima (costo tra mensole e strutturina circa 120€ e un paio d'ore per assemblarla), dove riporre i miei tacchi e venire finalmente a conoscenza del fatto di averne una valanga ingestibile. Quando non hai una scarpiera e le tue scarpe giacciono raminghe seppellite qua e là (sottoilletto/sottoleborse/sottoivestiti/dilàall'ingresso/nellosgabuzzino) te le dimentichi. O meglio, fingi di dimenticarle e corri a comprarne delle altre. Morale, otto virgola cinque metri lineari di ripiani sono già sgionfi ed esauriti.

Esempio quattro: se apri gli occhi all'alba c'è una luce rosso fuoco che penetra nelle fessure della tapparella regalandoti il migliore dei risvegli. Nei tre anni a Trastevere mi è mancata la luce. È un dono, davvero.

Esempio cinque: hai la mamma due piani sotto. Questo punto devo ancora capire bene se si collochi sulla sinistra o sulla destra del foglio.

















mercoledì 18 settembre 2013

Il treno giapponese

Non credevi di rimanerci così sotto. La ristrutturazione di una casa è come un treno giapponese che va a quattrocento all'ora. Ti porterà anche lontano ma se ti passa sulla testa ti spappola e di te lascia solo brandelli.

Ecco. Tu stai così. Sbrindellata.

Avevi progettato di entrarci a giugno, là dentro, per poi renderti conto a maggio che non ce l'avresti mai fatta.

Avevi riprogettato di metterci piede a luglio, magari senza che fosse proprio tutto tutto pronto. Per poi capire che prima di agosto non avresti visto luce.

Cocciuta come un cane stupido, fissi il trasloco il 7 agosto - giorno prima della partenza per tre settimane di meritatissime vacanze, allego foto - e componi valigie a casaccio rovistando negli scatoloni. Ti fai pietà da sola, ma ti dici che tanto tra qualche ora avrai i piedi in ammollo e i tic nervosi corredati da occhio traballante saranno presto un ricordo.

Effettivamente va proprio così: poche ore di Grecia ti rimettono al mondo e ti fanno dimenticare la mandria di bestie che per mesi hanno gravitato intorno a te: l'idraulico bestemmiatore che sbaglia quattro volte l'impianto; l'elettricista con l'occhio da cernia che dimentica le prese, ne aggiunge dove non servono e lascia i fili penzoloni perché "è un peccato levarli subito" (frase che stai ancora cercando di decifrare); il falegname che sbaglia TUTTO. Te li dimentichi.

Ti godi tuo figlio, quell'affare al quale dedicasti il titolo di un blog un tempo semi-seguito e ormai semi-abbandonato. Ti godi i progressi di quel fusto di ottanta centimetri scarsi che ormai chiama tutti come se non vi fosse un domani, imita ogni rumore come un pappagallo e fa finta di dispiacersi quando lancia le cose per terra. Gli improvvisi pure una festicciola per il suo primo compleanno, con tanti bimbi che lui non si caga di striscio e tanti regali che riempie di mazzate, rompendone immediatamente i due terzi.
Acchiappi due diciottenni autoctone che si chiamano entrambe Maria e le trasformi in novelle babysitter; le incolli al nano mattina e sera - sera e mattina, per lo sdegno di tutte le mamme Napisan del mondo (seiunapazzalascituofiglioaunasconosciutaanzidue-potrebberoesserefiglietue-madresnaturata). Effettivamente una delle due rischia di eliminarti il nano per sempre in un paio di occasioni, ma lo salvi in corner e tutto È bene quel che finisce bene. Resta il fatto che le due Marie ti salvano la vacanza, ti scremano le rotture di palle e ti fanno godere solo il meglio del pargolo, alla faccia delle mamme Napisan.

Insomma vacanza pseudoperfetta ma poi sempre al dunque devi tornare. Hai fatto la vaga per tre settimane ma la realtà ti inchioda: LA CASA NON È PRONTA NONOSTANTE TU ORMAI CI VIVA DEFINITIVAMENTE DENTRO. È lì che capisci il peso insostenibile dell'avverbio DEFINITIVAMENTE. Niente frigo. Niente bidet. Niente mobili. Scatoloni. Piccoli medi grandi. Mensole da inchiodare. Nuovi buchi al muro da fare. Polvere. Disordine. Scatoloni. Buste. Pacchi. Scatoloni. Cassette. Polvere. Casino. Livelle. Trapani. Viti ovunque. Un bambino di un anno che comincia a camminare. Il lavoro. Le amiche. Un uomo.

Tutto in ordine sparso, come nella tua testa. Come in questa casa. Che ancora non profuma di casa ma che già ti sta tanto - ma tanto - tanto - sugli zebedei.