sabato 30 maggio 2015

Au pair, la rivoluzione (parte III)

Canticchia e fischietta. Fischietta e canticchia. E ha un sorriso che quando si schiude coinvolge ogni più piccolo muscolo di quella faccia da poco più che adolescente.

Non ci posso fare niente, mi piace.

Anche se spreme il tubetto del dentifricio dalla cima anziché dal fondo. Anche se mentre addormento a fatica Vittorio, che ormai dorme nella mia stanza, lei urla un miliardo di novità su Skype alla madre, che - evidentemente mezza sorda e forse più euforica della figlia per questa nuova esperienza - urla più di lei.

Mi piace anche se da quando c'è lei la mia vita, anziché semplificarsi, si è complicata.

Isabelle è una responsabilità enorme, per me. Perché è una ragazza semplice senza esperienza in una città che di semplice non ha più nulla. L'altro giorno la osservavo mentre con gli occhi sgranati, pieni di stupore, spalle al fontanone del Gianicolo guardava giù, quella distesa di cupole e palazzi e ancora cupole che compongono l'orizzonte di Roma. Stava in silenzio, seria. Poi si è girata di scatto e con quel suo sorriso così puro mi ha detto: "danke". 
Questa breve pagina della sua vita è anche nelle mie mani, non posso non sentirne il peso. Si guarda intorno un po' spaesata, cerca punti di riferimento e nuove abitudini che la facciano sentire più "a casa". Se ne va a correre ogni giorno al parco, un piccolo palliativo al l'astinenza da ginnastica agonistica che a casa sua, quella vera, la vede impegnata per ore alle sbarre o su un tappeto. Dopo pranzo esce a prendersi il cornetto con la cioccolata al bar, non le interessa che qui si mangi per colazione. "cornetto ist super auch nach dem Mittagessen", mi risponde. Poi me lo ripete in quell'italiano stiracchiato. Covnetto buóno dopo pvanzo anche.
Io cerco di aiutarla, in quella ricerca di familiarità e di sicurezza. Il frigo sempre pieno, le ho insegnato a cucinare la pasta al pomodoro ma sul fatto di buttare la pasta con l'acqua già in ebollizione l'ho vista perplessa.

L'altra sera ci siamo ritrovate a guardare Dirty Dancing e Mystic Pizza insieme sul divano, in quella zona franca comunicativa offerta dai film in lingua originale.

Penso a me all'età sua. Non ricordo esattamente chi fossi. Ma non ero lei. Ero più viziata, più annoiata, più insoddisfatta. Anche molto più casinista, nottambula, matta. Lei non sembra molto interessata a quello che succede in giro dopo che il sole è tramontato, nonostante le abbia ribadito che quando Vittorio non c'è può uscire quando vuole. Le ho addirittura proposto di venire con me. Poi mi sono resa conto che ci dividono quasi 15 anni, e che forse il mio divertimento non collima più con il suo.

Alla fine la verità è che mi piace perché uccide la mia solitudine. Perché è vero, ci ho messo tanta testa, tante notti in bianco, tanti mesi, tanto tutto per decidere di tornare sola. Ma il silenzio totale che cala quando Vittorio cade addormentato, la sera, mi porta indietro a quando eravamo in tre ma di cose da dire non ce n'erano più. E quell'assenza di suoni, di voci, di racconti e condivisione mi spezzava in due.
Il silenzio mi fa ancora un po' paura, molto più del buio.

Gute nacht, Manuela. Schlaf gut.

Buonanotte, dormi bene.

Mi mancava, un po'.

domenica 24 maggio 2015

Della libertà.

Mentre scrivo della Freedom Tower e della sua prossima inaugurazione penso a quando ero a New York. Al dibattito su quel nome che non piaceva ai cinesi. A quel simbolo di rinascita dopo la tragedia delle Torri Gemelle che ancora era fresca nei ricordi di chi incontravo.

E penso a me, che cominciavo a fare la giornalista ma non sapevo ancora dove sarei andata. Non lo so nemmeno oggi, perché tutto passa e tutto cambia. Ma nel frattempo ho fatto tanto, ho vissuto una miriade di eventi/emozioni che mi hanno allontanata dalla persona che ero al 24mo piano di Avenue of the Americas 32, nella redazione di Rai Corporation.

Scappavo da tutto. Mi ero ritrovata a Manhattan dopo la fine di un grande amore che avevo ancora bisogno di congelare. Scappavo da una laurea in giurisprudenza per la quale ho rischiato di ammalarmi. Scappavo da una città, Roma, che in quel momento non mi bastava.

Oggi sono peggio di allora. Sono più cinica e non scappo più da nulla. Ma dopo tanti anni - nonostante il mio amore grande per quel crocevia umano - ho una certezza. E' andata esattamente come doveva, non avrei mai potuto vivere a New York. Convivere con l'alienazione, con il senso di smarrimento che mi procurava vivere lì. Con quell'appartenenza a niente. Con la netta e opprimente sensazione di essere "una goccia nell'oceano", come scrissi pochi giorni dopo il mio arrivo a mio padre.

Lui mi voleva a Roma. Non me lo ha mai detto, ma era chiaro. Si capiva dai lunghi silenzi quando gli raccontavo delle possibilità che offriva quella enorme città, anche sul fronte lavorativo. Non mi avrebbe mai chiesto di tornare, ma io non l'ho deluso. Forse la decisione di non provarci fino in fondo è dipesa anche da lui.

Dopo New York è proseguita la scuola di giornalismo, poi i tirocini al Tg5, che oggi è il luogo in cui lavoro. Ma in mezzo c'è la gavetta in una redazione locale dove ho trovato e perso me stessa tante volte, un percorso lavorativo che si è intrecciato con la nascita di Vittorio e con la successiva separazione da suo padre.

Penso a quella Torre della Libertà, 541 metri costruiti in 6 anni, e penso a me, buttata giù e ricostruita in pochi mesi. E penso che quel nome in fondo si addica anche a me, che agli altri piaccia oppure no.


mercoledì 13 maggio 2015

Au pair, la rivoluzione (parte II)

...E così la prima notte è trascorsa. Siamo tutti ancora vivi. E a dirla tutta stiamo anche piuttosto bene.

L'arrivo di Isabelle nelle nostre vite promette di essere un vento leggero e fresco, capace di portare con sé qualcosa di bello.

Mia madre è andata a prenderla all'aeroporto e si è appesa al collo un cartello, come nei film. I S A B E L L E.

Pare che lei abbia sgranato il suo primo italianissimo sorriso. È alta, altissima, il corpo da ginnasta e il viso da ragazzina. Mi piace.

Durante il tragitto verso casa hanno parlato di tutto, non so bene in che lingua visto che mia madre non parla inglese né tedesco. Ma all'arrivo sapeva tutto di lei. Mi ha chiamata mentre ero al lavoro: "Manu tutto ok, siamo arrivate a casa. Lei molto carina, fine, timida. Ha due fratelli, uno è in polizia. Ha il fidanzato che è un po' triste per la sua partenza ma si è fatto trovare all'aeroporto alle 4 di mattina per salutarla. Ah, Vittorio l'ha presa benissimo".

Ho scoperto più tardi che "benissimo" non è la parola giusta. Quando sono tornata a casa mi ha detto "mamma ora tu vai di là, che io gioco con Isa a fussballon (calcio in tedesco, ndr) con il luftballon (palloncino in tedesco, ndr)". 

Siamo partiti per il mare. Alla seconda curva entrambi dormivano con la faccia spiaccicata contro il finestrino. Di grande compagnia.

All'arrivo l'ha presa per mano e l'ha presentata a tutti gli abitanti del paese con orgoglio da maschio alfa, "guadda, questa è Isabèl". E ora stanno così.





lunedì 11 maggio 2015

Au pair, la rivoluzione (parte I)

Ok. È tutto pronto. 

Fra esattamente 13 ore la vita delle nostre quattro mura domestiche, ma forse anche la mia e del nano, è destinata ad una svolta cruciale: l'arrivo di una terza persona. 

No. Non ho nascosto bene una gravidanza. Ma la sensazione è lo stesso quella di un grande avvenimento. Al punto che oggi mi sono ritrovata a lustrare i pavimenti, montare un mobile di ikea per offrirle più spazio, stiracchiare gli angoli del copripiumino nuovo di trinca che nemmeno venisse Michelle Obama.

Arriva Isabelle. Diciannove anni. Tedesca. La ragazza "alla pari". Alla pari in cosa, esattamente? Sono settimane che ci ragiono. Segretamente mi auguro sia parità vera, soprattutto in relazione a Vittorio. Cioè che fracassi gli zebedei della nuova arrivata in misura superiore o uguale a quanto li martoria a me. Il fatto della lingua sarà un grande ostacolo. Quando il sorcio capirà che lei non comprende il vittoriese e più in generale l'italiano, tornerà al punto di partenza. Si rivolgerà solo a me. E l'agognata parità andrà a quel paese.

Il passaggio ad ogni modo è davvero di quelli epocali. Accettare di avere una terza figura sconosciuta dentro casa implica l'avere preventivato di eliminare alcune prassi diffuse in casa, come Il far esplodere il guardaroba ad ogni vestizione/svestizione e lasciare tutto esattamente così com'è per giorni, all'occorrenza settimane, come fosse una scena del crimine. E della quale - in quanto tale - non si tocca nulla fino all'arrivo della scientifica. Che nel mio caso è la povera Mariana, tata di Vittorio, anche lei oggettivamente molto scientifica nel sopportare e nel dare un senso al pulviscolo di oggetti che popolano i miei spazi.

Dovrò anche fare la... come si chiama? Ah, sì. La spesa. L'ultima volta deve essere stata tre anni fa, in epoca previttoriana. Questo fatto che le ragazze tedesche mangino mi ha lasciata un filo perplessa, all'inizio. Poi qualcuno mi ha detto che qualche volta capita, e ho capito che non potrò continuare con la vecchia abitudine di andare con la busta salva-ambiente nella dispensa di mia madre e rifornirmi lì del minimo necessario. 

"Isabelle, cosa mangi di solito a colazione?"

"Cornflakes and Milk, or a toast and orange juice".

Capite? Non una, non due. Quattro cose in totale. Mi sembrano un'enormità. 

Fatto sta che il frigo è pieno. La camera, per quanto costellata di nano-giochi e del tutto inadatta a una diciannovenne, è perfetta. E noi siamo emozionati. 

Il perché una ragazza alla pari, o più in generale una terza persona, entri a far parte delle nostre incasinatissime vite, è il frutto di una lunga storia che racconterò (soprattutto a me stessa - hai visto mai che finalmente anch'io ci capisca qualcosa) piano piano. Per adesso mi godo l'ennesima novità del 2015 fra un sorriso, una goccia di sudore freddo e un segno della croce. Lui invece così, tutto felice. La frase più pronunciata del mese è "quando arriva la ragazza?"


domenica 10 maggio 2015

Lettera a mio figlio

Caro Vittorio,

quando eri ancora dentro di me avevo inaugurato un grande quaderno in cui scriverti. L'ho fatto una manciata di volte, ma poi ho smesso. Credevo di non avere nulla da dirti, nulla che un domani avrebbe potuto esserti realmente utile.
Forse avevo paura di un tuo giudizio. "In fondo non sono altro che una madre che si separa, che MOLLA, che fallisce nel suo progetto di vita", mi dicevo. "Cosa posso lasciare a mio figlio di positivo? Un giorno mi rimprovererà per tutto quello che gli ho tolto".

Ho trascorso un anno molto duro, ho scelto di affrontare quel fallimento, ho scelto di cambiare vita, ho scelto che anche la tua vita, di conseguenza, cambiasse, ed è stato questo il passaggio più doloroso e sofferto.
Mi rendo conto solo adesso, con un briciolo di lucidità in più rispetto a otto mesi fa, che - appunto - HO SCELTO. Ho colto questa grande opportunità che la vita ci offre, quella di invertire la rotta, creare una frattura, provare a vedere se dietro la sofferenza si nasconda un'altra felicità. 
Non so se un'altra felicità esista, non ci sono ancora arrivata. Ma so che solo affacciandoci oltre le nostre paure, oltre la pigrizia, oltre le nostre piccole certezze stanche possiamo almeno provare a cercarla, la felicità. Se non la troveremo, avremo comunque scoperto di aver avuto coraggio.
Io quel coraggio l'ho trovato. 
Ieri, nel chiudere un progetto che non funzionava. Oggi, nel replicare questa esperienza nel lavoro.
Un nuovo salto ad occhi chiusi.
"Chi te lo fa fare? Perché rischiare?"
Per il motivo più banale del mondo, amore mio. Perché sono viva, perché la dignità passa attraverso il rispetto di se stessi e delle proprie aspirazioni, perché la dignità si nutre di sogni da non lasciare dimenticati, impolverati, sviliti in un luogo scuro. Perché la dignità è non smettere mai di chiederci dove possiamo arrivare e quali siano i nostri reali limiti.

Anche stavolta io ho scelto.
Scegliere, che enorme lusso! Una carta speciale riservata a pochi. Per questo motivo sprecarla è un peccato. 
Il senso di queste righe scombinate è tutto qui: io un messaggio da trasmetterti in fondo ce l'ho e mi rende fiera. 

Abbi coraggio. 
Rispetta te stesso. 
La tua dignità è la vita. 
La ricerca costante che i nostri sogni vedano la realizzazione può essere un obiettivo reale, il cardine della nostra esistenza.
Non tirarti indietro di fronte alla possibilità di scoprire i tuoi muri mentali e le tue incapacità. Qualora accada, ne uscirai più forte.
Non avere paura.
Non potrò evitare che tu commetta i miei grandi errori, non potrò evitare che tu cada, ma sarò sempre al tuo fianco e ti aiuterò a capire come tirarti su in piedi di nuovo, da solo, con la schiena dritta e lo sguardo al cielo.

Qualche giorno fa mi hai detto piano: "Mamma, ti dico una cosa nell'orecchio, io ti adoro". Non sai ancora cosa voglia dire. Quando lo scoprirai, avrai la certezza di essere ricambiato.

Sono molto fiera di essere la tua mamma.



venerdì 14 marzo 2014

Happy White Day!

Manco da troppo tempo. Ma sono viva. Ecco, volevo solo aggiornare questo luogo e dire che sono viva. Un po' spezzata, ma viva. Magari quando riacquisto tempo e lucidità snocciolo pure cosa vuol dire "spezzata".

Ma oggi lo sapete che è il White Day? Il giorno bianco. Il 14 marzo in giappone si celebra una giornata in bianco, dal colore del cioccolato che viene donato in cambio dall'uomo alla donna che a sua volta, esattamente un mese prima, per San Valentino, aveva dichiarato il suo amore con del cioccolato scuro.

Nota bene: il regalo dell'uomo deve avere un valore doppio o triplo di quello della donna. Come per il cioccolato di San Valentino, anche per il white day esistono tre categorie di doni:
  • honmei-choko (本命チョコ "cioccolato del favorito") che si consegna alla persona amata
  • tomo-choko (友チョコ "cioccolato dell'amico") regalato agli amici
  • giri choco (義理チョコ "cioccolato d'obbligo"), dato per convenzione sociale a colleghi e compagni.
(Fonte: Wikipedia.org)

Io negli ultimi mesi mi sono districata in un fiume di black days, ma oggi... Beh oggi me lo concedo anch'io un giorno in bianco. Mente libera, zero pensieri, cioccolato bianco, pulizia. Ci provo, almeno.












mercoledì 15 gennaio 2014

Vittorio in da country - outfit campagnolo



Prendi un pezzo di campagna toscana fra Cetona e Siena. Aggiungici un pollaio pieno di galline e uova appena deposte. Infilaci dentro un bambino di un anno e mezzo e mettigli addosso le cose giuste. Otterrai sorrisi e urletti di gioia, il bambino già citato che non vorrà più tornare a casa e la parola "uovo" pronunciata male ma a ripetizione per i seguenti tre giorni.

L'outfit di questa settimana è perfetto per la campagna, perché vede presenti le insostituibili calosce Hunter, un cappello caldo caldo rivestito di pile, un gilet imbottito e un calzone scozzese da monello. Stile più divertimento più comodità. E Vittorio è servito.



Vittorio's outfit
Maglione Oeuf Be Good
Gilet imbottito Gap
Pantaloni MAD
Boots Hunter (Maros Roma)
Beanie OVS