Chi trova una vasca in ghisa originale color pastello trova un tesoro.
Se poi gli operai sopravvissuti all'epidemia sono pure forzuti e te la portano su per tre piani di scale ripide, integra, con tutti i suoi 130 chili, è un tesoro maggiorato.
Andrebbe proprio tutto bene, là dentro. Se non fosse che Rafaèl ormai si è affezionato e non mi riesce più di mandarlo via. Se non fosse per quel metro quadrato di mattonelle mancanti in cucina perché la demente che me le ha vendute aveva due in algebra. Se non fosse per quel Raul che si è volatilizzato con 900 euro in tasca e i suoi rimasugli di polmonite lasciandomi il guardaroba a carissimo amico. Se non fosse per la doccia che ancora non abbiamo capito cosa diventerà, se un grottino di pescatori ponzesi o il ripostiglio segreto di Al Capone (data una parete in pietra viva, le altre celestine, la rubinetteria in ottone e il piatto doccia in travertino. Qualcuno per cortesia mi ricordi come e quando mi è venuto in mente.). Se non fosse che il rullino fotografico del mio cellulare si è trasformato nel campionario di una ditta di forniture elettriche.
Però ho trovato la vasca in ghisa originale color pastello. E chi trova una vasca in ghisa originale color pastello trova un tesoro. Credo.
venerdì 28 giugno 2013
mercoledì 26 giugno 2013
Quel cestino con le margherite
Un bicchiere di vino gelato, un nuovo progetto che parte energico, due amiche, l'idea che il successo è una meta e non un sogno da lasciare chiuso in un cassetto.
Perché avere un figlio è solo il punto di partenza, ma poi ci sei tu. Con i tuoi sogni, la tua voglia di realizzarti, le tue speranze, il tuo senso della vita.
E a quell'appuntamento con il tuo futuro devi andarci così, con la tua bicicletta. Come quando eri una ragazzina senza pensieri. Perché stasera ti serve la mente libera. La testa sgombera. I capelli incasinati. Il cestino con le margherite. Il cervello che si squaglia nel vino e in quel brindisi, a siglare un nome per questa nuova avventura e un connubio che profuma di buono.
Da domani, ormai da oggi, ricomincio da me. Con le mie amiche, con una nuova strada da percorrere, con un obiettivo da sfiorare. Con la mia vecchia bici ormeggiata sotto casa anziché dentro, per non destare il nano che dorme beato.
Perché ancora per qualche settimana questa è la mia casa. La culla delle mie grandi conquiste, la custode dei miei progetti più preziosi. E con lei. E quel suo cestino con le margherite.
Perché avere un figlio è solo il punto di partenza, ma poi ci sei tu. Con i tuoi sogni, la tua voglia di realizzarti, le tue speranze, il tuo senso della vita.
E a quell'appuntamento con il tuo futuro devi andarci così, con la tua bicicletta. Come quando eri una ragazzina senza pensieri. Perché stasera ti serve la mente libera. La testa sgombera. I capelli incasinati. Il cestino con le margherite. Il cervello che si squaglia nel vino e in quel brindisi, a siglare un nome per questa nuova avventura e un connubio che profuma di buono.
Da domani, ormai da oggi, ricomincio da me. Con le mie amiche, con una nuova strada da percorrere, con un obiettivo da sfiorare. Con la mia vecchia bici ormeggiata sotto casa anziché dentro, per non destare il nano che dorme beato.
Perché ancora per qualche settimana questa è la mia casa. La culla delle mie grandi conquiste, la custode dei miei progetti più preziosi. E con lei. E quel suo cestino con le margherite.
martedì 25 giugno 2013
Io, l'anti-Brigitte
Perdi quasi dieci chili in sei mesi. La fame nera. Bevi come un cammello perché "l'acqua elimina l'acqua". Vai a correre alle 7 di mattina sulle sponde del Tevere con un occhio chiuso e l'altro aperto, col barbone sotto al terzo ponte che ti guarda con compassione ogni volta che passi paonazza e sudaticcia. Diventi primo contribuente della Enerzona e delle sue barrette al cemento ma con indice glicemico nullo.
Ma per qualche motivo assolutamente inspiegabile non diventi comunque mai lei. Mai. Quasi quasi mi rimetto a magna'.
Ma per qualche motivo assolutamente inspiegabile non diventi comunque mai lei. Mai. Quasi quasi mi rimetto a magna'.
sabato 22 giugno 2013
In libertà condizionata
Sei in un letto d'albergo - su un'isola color pastello - con la panza piena di pesce - con un mojito da ammortizzare - con Lui è gli amici da goderti - con due giorni di pace da assaporare. Alle ore due di notte guardi il soffitto e pensi: "io senza mio figlio sto una bomba".
E mentre lo sussurri al lato grigio del tuo cervello già senti le reprimende durissime delle mamme napisan, che il figlio non lo lasciano solo nemmeno per fare la pipì.
Invece tu, donna ignobilis, lo molli ai nonni perché hai bisogno di respirare. Ma proprio bisogno. Cioè che se non stacchi un attimo la spina mordi ma di brutto.
È allora che te ne vai dritta dritta su quell'isola che per te rappresenta molto, vai a ringraziare il suo patrono a cui ti sei raccomandata un anno fa per la salute di tuo figlio e per la toxo.
Ci vai con la voglia di viverti ogni attimo di quel silenzio, di quel riposo, di quella mente sgombra di tutto. Della casa che non vede luce in fondo al tunnel; del lavoro; di Vittorio, soprattutto.
Vittorio.
Quest'isola è piena di Vittorio.
All'arrivo passi davanti a quell'alberghetto turchese affacciato sul porto e ti tornano in mente immagini così fresche, così pure e dolci. Ti ricordi la prima volta che ci sei venuta, lo stupore. Ti ricordi di quel sogno fatto quel settembre di due anni fa, quando dormivi lì dentro. Sognasti di avere un bimbo di tre anni, biondo, silenzioso. Si chiamava Vittorio.
La mattina dopo, mentre facevi colazione su quella bella terrazza, un bimbo paffuto e con gli occhi azzurri scorrazzava intorno al tuo tavolo. Si fermò accanto a te e ti regalò un sorriso contagioso. Una signora che osservava la scena ti sussurrò "ma allora è lei la mamma di Vittorio..."
Due mesi dopo rimanevi incinta e decidevi che quella strana combinazione meritasse di essere valorizzata. Tuo figlio doveva chiamarsi così.
Vittorio.
Dormirà? Avrà mangiato? Starà bene con i nonni? Un pensiero fisso nella sua assenza, ma la libertà di rimanere seduta se ti va. Di alzarti se ti va. Di bere, se ti va. Di dormire, anche. Quella libertà che però non è più la stessa perché non profuma più di spensieratezza. Ma forse proprio per questo assaporata in ogni sua piccola declinazione.
E il sale sulla pelle e i ricci mangiati sul barchino, in una caletta solo nostra. Noi quattro, amici veri. Che ridiamo per nulla e insieme siamo di nuovo adolescenti in vacanza. E lei ed io farci stampare una maglietta a testa, con il nostro motto idiota, per immortalare questo scorcio d'estate che ingrana a stento ma che odora di libertà, nonostante tutto.
E mentre lo sussurri al lato grigio del tuo cervello già senti le reprimende durissime delle mamme napisan, che il figlio non lo lasciano solo nemmeno per fare la pipì.
Invece tu, donna ignobilis, lo molli ai nonni perché hai bisogno di respirare. Ma proprio bisogno. Cioè che se non stacchi un attimo la spina mordi ma di brutto.
È allora che te ne vai dritta dritta su quell'isola che per te rappresenta molto, vai a ringraziare il suo patrono a cui ti sei raccomandata un anno fa per la salute di tuo figlio e per la toxo.
Ci vai con la voglia di viverti ogni attimo di quel silenzio, di quel riposo, di quella mente sgombra di tutto. Della casa che non vede luce in fondo al tunnel; del lavoro; di Vittorio, soprattutto.
Vittorio.
Quest'isola è piena di Vittorio.
All'arrivo passi davanti a quell'alberghetto turchese affacciato sul porto e ti tornano in mente immagini così fresche, così pure e dolci. Ti ricordi la prima volta che ci sei venuta, lo stupore. Ti ricordi di quel sogno fatto quel settembre di due anni fa, quando dormivi lì dentro. Sognasti di avere un bimbo di tre anni, biondo, silenzioso. Si chiamava Vittorio.
La mattina dopo, mentre facevi colazione su quella bella terrazza, un bimbo paffuto e con gli occhi azzurri scorrazzava intorno al tuo tavolo. Si fermò accanto a te e ti regalò un sorriso contagioso. Una signora che osservava la scena ti sussurrò "ma allora è lei la mamma di Vittorio..."
Due mesi dopo rimanevi incinta e decidevi che quella strana combinazione meritasse di essere valorizzata. Tuo figlio doveva chiamarsi così.
Vittorio.
Dormirà? Avrà mangiato? Starà bene con i nonni? Un pensiero fisso nella sua assenza, ma la libertà di rimanere seduta se ti va. Di alzarti se ti va. Di bere, se ti va. Di dormire, anche. Quella libertà che però non è più la stessa perché non profuma più di spensieratezza. Ma forse proprio per questo assaporata in ogni sua piccola declinazione.
E il sale sulla pelle e i ricci mangiati sul barchino, in una caletta solo nostra. Noi quattro, amici veri. Che ridiamo per nulla e insieme siamo di nuovo adolescenti in vacanza. E lei ed io farci stampare una maglietta a testa, con il nostro motto idiota, per immortalare questo scorcio d'estate che ingrana a stento ma che odora di libertà, nonostante tutto.
sabato 15 giugno 2013
Partita sì ma di testa
Dopo tutto - continui a ripeterti come un mantra - questa settimana dovrà pur finire. Dopo tutto anche le peggiori sfighe e i cataclismi peggiori a un certo punto perdono potenza. Dopo tutto - ti dici a bassa voce - l'addizione
lavori a casa nuova in cui sette teste che gravitano là dentro non fanno in tutto tre neuroni
+
i tuoi in vacanza in Corsica proprio quando il tuo piccolo orticello fatto di poche cose ma molto incasinate ti crolla addosso
+
Vittorio che più cresce e più diventa uno scassaminchia, ma proprio un campione di scassaminchiaggine
+
la dieta che anche basta perché mi manda via il grasso ma al suo posto arrivano chili di giramento di balle
Dicevo... Dici a te stessa che questa cruciale addizione dovrà pur sfociare in qualcosa di buono.
È allora che colta da un senso di immotivato ottimismo decidi di dare una svolta al weekend e iniziarlo partendo per il mare con il tuo amato bambino. Quanto romanticismo. Tu e lui, lui e te. In macchina, soli, lungo la strada della vita, con una dolce musica in sottofondo e il sole rosso calante divorato da una distesa di mare blu.
Ma se è vero che il povero Murphy era e resta il mio guru indiscusso, dovevo immaginare che una settimana di merda non potesse meritare tanta poesia.
Il viaggio di un'ora e mezzo si allarga misteriosamente a tre ore. Vittorio piange come un'aquila sgozzata per tutto il tragitto e non crolla neanche a mazzate. Mi fermo a piazzole di sosta alterne cercando di calmarlo. Lo cullo, lo distraggo, ma lui decide oggi per la prima volta che tutte quelle lucine dell'abitacolo gli piacciono assai e anzi ora quasi quasi le provo tutte per vedere se funzionano. Revisione lucine effettuata, si riparte con nuovo pianto greco annesso. A ogni piazzola stessa scena con protagonisti intercambiabili. Io, Vittorio, un camionista curdo che si magna un piatto di pastasciutta. Io, Vittorio, una coppietta in amore. Io, Vittorio, il vecchio incontinente. Potrei scrivere un opuscolo e chiamarlo "il microcosmo che gravita attorno alla piazzola di sosta".
Quando alle ore 23 finalmente cade stremato (dovrete passare sul mio cadavere per sapere come ho fatto poiché rischio l'arresto), io comincio a barcamenarmi fra i colpi di sonno.
Finalmente arrivo al paesello, dove tra umidità e caldo sembra di stare a San Paolo e io ovviamente devo scaricare le dieci borseborsettebustebustonivaligie (perché da quando c'è il mostro il mio amato baluardo del "prendo due cose e via" è miseramente franato). Io, carica come un uovo di struzzo, signora Brambilla in villeggiatura, devastata dalla vita e dal sonno, apro lo sportello sotto casa e vengo tramortita da dieci milioni di decibel di un rock pietoso cantato dal vivo da un soggettone pelato con la panza, che intercala parolacce e note come non vi fosse un domani. Il piano bar. Che se c'è una cosa che odio, io, è il piano bar. E loro che fanno? Mi mettono il piano bar. Sotto casa. Vittorio ovviamente si sveglia ad ogni apertura di porta. È così che alle ore 00.00, con seicento bagagli, l'aquila di nuovo sveglia e sgozzata, e soprattutto la macchina ancora da parcheggiare in culonia, acchiappo il proprietario del locale e con sorriso da pazza e un tono di voce degno di Psycho gli sussurro: "immagino che questa dolce melodia sia un evento isolato. Perché se non lo è qualcuno morirà".
Il tizio mi ha rifilato un loquace "sì", e la cosa si è chiusa lì.
Comunque la serata è finita che Vittorio ha dormito nel lettone con me. Siamo crollati insieme, vestito lui e vestita io. Alla faccia di Estivill e delle sue teorie minchione, che non prevedono partenze shock e arrivi ancora più shock. Amen.
lavori a casa nuova in cui sette teste che gravitano là dentro non fanno in tutto tre neuroni
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i tuoi in vacanza in Corsica proprio quando il tuo piccolo orticello fatto di poche cose ma molto incasinate ti crolla addosso
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Vittorio che più cresce e più diventa uno scassaminchia, ma proprio un campione di scassaminchiaggine
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la dieta che anche basta perché mi manda via il grasso ma al suo posto arrivano chili di giramento di balle
Dicevo... Dici a te stessa che questa cruciale addizione dovrà pur sfociare in qualcosa di buono.
È allora che colta da un senso di immotivato ottimismo decidi di dare una svolta al weekend e iniziarlo partendo per il mare con il tuo amato bambino. Quanto romanticismo. Tu e lui, lui e te. In macchina, soli, lungo la strada della vita, con una dolce musica in sottofondo e il sole rosso calante divorato da una distesa di mare blu.
Ma se è vero che il povero Murphy era e resta il mio guru indiscusso, dovevo immaginare che una settimana di merda non potesse meritare tanta poesia.
Il viaggio di un'ora e mezzo si allarga misteriosamente a tre ore. Vittorio piange come un'aquila sgozzata per tutto il tragitto e non crolla neanche a mazzate. Mi fermo a piazzole di sosta alterne cercando di calmarlo. Lo cullo, lo distraggo, ma lui decide oggi per la prima volta che tutte quelle lucine dell'abitacolo gli piacciono assai e anzi ora quasi quasi le provo tutte per vedere se funzionano. Revisione lucine effettuata, si riparte con nuovo pianto greco annesso. A ogni piazzola stessa scena con protagonisti intercambiabili. Io, Vittorio, un camionista curdo che si magna un piatto di pastasciutta. Io, Vittorio, una coppietta in amore. Io, Vittorio, il vecchio incontinente. Potrei scrivere un opuscolo e chiamarlo "il microcosmo che gravita attorno alla piazzola di sosta".
Quando alle ore 23 finalmente cade stremato (dovrete passare sul mio cadavere per sapere come ho fatto poiché rischio l'arresto), io comincio a barcamenarmi fra i colpi di sonno.
Finalmente arrivo al paesello, dove tra umidità e caldo sembra di stare a San Paolo e io ovviamente devo scaricare le dieci borseborsettebustebustonivaligie (perché da quando c'è il mostro il mio amato baluardo del "prendo due cose e via" è miseramente franato). Io, carica come un uovo di struzzo, signora Brambilla in villeggiatura, devastata dalla vita e dal sonno, apro lo sportello sotto casa e vengo tramortita da dieci milioni di decibel di un rock pietoso cantato dal vivo da un soggettone pelato con la panza, che intercala parolacce e note come non vi fosse un domani. Il piano bar. Che se c'è una cosa che odio, io, è il piano bar. E loro che fanno? Mi mettono il piano bar. Sotto casa. Vittorio ovviamente si sveglia ad ogni apertura di porta. È così che alle ore 00.00, con seicento bagagli, l'aquila di nuovo sveglia e sgozzata, e soprattutto la macchina ancora da parcheggiare in culonia, acchiappo il proprietario del locale e con sorriso da pazza e un tono di voce degno di Psycho gli sussurro: "immagino che questa dolce melodia sia un evento isolato. Perché se non lo è qualcuno morirà".
Il tizio mi ha rifilato un loquace "sì", e la cosa si è chiusa lì.
Comunque la serata è finita che Vittorio ha dormito nel lettone con me. Siamo crollati insieme, vestito lui e vestita io. Alla faccia di Estivill e delle sue teorie minchione, che non prevedono partenze shock e arrivi ancora più shock. Amen.
giovedì 13 giugno 2013
mercoledì 12 giugno 2013
Toxoplasmosi, la mia esperienza
Non so esattamente da dove cominciare, stavolta. Perché i post di servizio non sono il mio forte, soprattutto quando affrontano questioni che mi coinvolgono emotivamente. Ma oggi, oggi in particolare, questo post è dovuto.
Parlo di toxoplasmosi. E lo faccio oggi perché un anno fa scoprivo di averla contratta, ed ero in piena gravidanza.
Cerco di fare ordine e divido questo flusso di cose che ho da dire in due parti. La prima è la mia storia; la seconda è ciò che ho imparato dalla mia esperienza.
Il 12 giugno del 2012, cioè a cavallo tra il settimo e l'ottavo mese di una splendida gravidanza tutta in discesa (fino a quel momento), la dottoressa del laboratorio di analisi mi comunica che il risultato dell'ultimo controllo dà le IgG della toxoplasmosi positive. Le IgM invece sono negative. "Stai tranquilla", mi dice, "si tratterà sicuramente di un falso positivo. Ripetiamo le analisi e già domattina ti faccio sapere qualcosa".
Di nuovo, IgG alle stelle e IgM negative. Eppure quel valore è strano, perché di solito le IgM, cioè gli anticorpi che reagiscono all'aggressione, salgono insieme alle IgG.
Vado al San Giovanni e mi confermano il dato (info di servizio: il centro Lalli di fatto non esiste più); poi vado all'Artemisia di Roma, dalla brava e gentile dottoressa Mobili, esperta di toxo e CMV, e le espongo il mio caso. Nuove analisi, con strumenti più elaborati, ma stesso risultato. Le analisi molecolari per rintracciare il parassita nel sangue non danno buon esito. Anche lei ha dubbi se si tratti di toxo a tutti gli effetti ed è indecisa se farmi cominciare la terapia antibiotica con Rovamicina, che comunque costituisce una botta per il mio organismo e per quello del feto. Ma io insisto per iniziare e il 15 giugno parto con la cura: tre pasticconi al giorno, 8-16-24, da lì fino al parto.
Inizia così il mio incubo. Insonnia e irrequietezza alle gambe tutta la notte per due mesi, l'angoscia che sale giorno dopo giorno: non so se anche il bambino abbia già contratto la toxo, se stia bene, se il parassita lo abbia già danneggiato.
Mi informo se vi sia un modo per monitorare Vittorio, leggo su internet che l'unico strumento certo per sapere se anche lui ha la toxo è la funicolocentesi, cioè una sorta di amniocentesi ma che all'ottavo mese di gravidanza è troppo pericolosa per il bambino.
Io, che avevo ormai finito le ecografie di routine, riprendo a farle: non mi diranno se Vittorio è infetto, ma mostrano l'eventualità di danni evidenti (cosa che per fortuna non accade mai).
Intanto anche le IgM, dopo diverse settimane, si palesano. Un buon segnale: vuol dire che quando ho scoperto la toxoplasmosi l'avevo contratta da una manciata di giorni e le IgM non si erano ancora mosse.
Il 13 agosto alle 8 prendo l'ultima pillola, alle 16 partoriscoVittorio e la mattina dopo gli fanno un prelievo da protocollo, per verificare (finalmente) se la toxo sia passata a lui. Solo allora mi arriva la bella notizia: IgG e IgM negative, Vittorio NON HA LA TOXOPLASMOSI.
Veniamo a quello che ho imparato.
Ho imparato di essere stata troppo indulgente con me stessa. Avrei dovuto fare più attenzione a quello che mangiavo, soprattutto alla carne cruda.
Ho imparato che la toxoplasmosi non è un virus ma un parassita. Che il modo più difficile per contrarla è tramite un gatto infetto. Molto più semplice invece prenderla tramite frutta e verdura lavata male. Io non ho certezza sul come l'abbia contratta, ma a posteriori non importa.
Ho imparato che la toxo contratta alla fine della gravidanza, se trasmessa al feto non provoca danni abnormi perché esso è praticamente già del tutto formato, contrariamente a quanto avviene all'inizio della gestazione; ma la placenta nell'ultimo trimestre è più vecchia e logora, dunque è di gran lunga più probabile che il feto contragga la malattia.
In sintesi: nei primi 3/4 mesi se il feto contrae la toxo (cosa rara poiché la placenta giovane fa da filtro) i danni sono enormi e spesso viene consigliata l'interruzione di gravidanza. Invece negli ultimi 3/4 mesi avviene esattamente il contrario: alte probabilità di passarla al feto, ma danni minori (laddove per "minori" si intendono ritardi mentali, sordità, piccole calcificazioni), che solitamente si scoprono a cose fatte, cioè dopo il parto. Se si intravede qualcosa tramite ecografia, in ogni caso non si può far granché.
Ho imparato che la terapia con Rovamicina non cura il feto bensì il contenitore: l'antibiotico infatti non oltrepassa la placenta se non in minime quantità. Lo si assume per neutralizzare la toxo nella madre e far sì che non passi al feto qualora non lo abbia già fatto. Per il feto che abbia sicuramente contratto la toxo c'è l'opportunità di un combinato di antibiotici micidiali, che passano attraverso la placenta.
Ho imparato che qualora il feto abbia contratto la toxo, seppure senza effetti visibili, scatta un protocollo clinico che prevede un prelievo sanguigno immediato alla nascita e poi controlli di vario genere ripetuti nel tempo fino all'età scolare, poiché alcuni danni sono latenti e possono uscire allo scoperto a distanza di mesi o anni.
Ho imparato che la vita di un bambino, la salute di un bambino, valgono più di una disattenzione, di una leggerezza. Ma che lo si scopre sempre troppo tardi. E che puntare il dito contro una donna che sbaglia è il primo degli errori imperdonabili.
Parlo di toxoplasmosi. E lo faccio oggi perché un anno fa scoprivo di averla contratta, ed ero in piena gravidanza.
Cerco di fare ordine e divido questo flusso di cose che ho da dire in due parti. La prima è la mia storia; la seconda è ciò che ho imparato dalla mia esperienza.
Il 12 giugno del 2012, cioè a cavallo tra il settimo e l'ottavo mese di una splendida gravidanza tutta in discesa (fino a quel momento), la dottoressa del laboratorio di analisi mi comunica che il risultato dell'ultimo controllo dà le IgG della toxoplasmosi positive. Le IgM invece sono negative. "Stai tranquilla", mi dice, "si tratterà sicuramente di un falso positivo. Ripetiamo le analisi e già domattina ti faccio sapere qualcosa".
Di nuovo, IgG alle stelle e IgM negative. Eppure quel valore è strano, perché di solito le IgM, cioè gli anticorpi che reagiscono all'aggressione, salgono insieme alle IgG.
Vado al San Giovanni e mi confermano il dato (info di servizio: il centro Lalli di fatto non esiste più); poi vado all'Artemisia di Roma, dalla brava e gentile dottoressa Mobili, esperta di toxo e CMV, e le espongo il mio caso. Nuove analisi, con strumenti più elaborati, ma stesso risultato. Le analisi molecolari per rintracciare il parassita nel sangue non danno buon esito. Anche lei ha dubbi se si tratti di toxo a tutti gli effetti ed è indecisa se farmi cominciare la terapia antibiotica con Rovamicina, che comunque costituisce una botta per il mio organismo e per quello del feto. Ma io insisto per iniziare e il 15 giugno parto con la cura: tre pasticconi al giorno, 8-16-24, da lì fino al parto.
Inizia così il mio incubo. Insonnia e irrequietezza alle gambe tutta la notte per due mesi, l'angoscia che sale giorno dopo giorno: non so se anche il bambino abbia già contratto la toxo, se stia bene, se il parassita lo abbia già danneggiato.
Mi informo se vi sia un modo per monitorare Vittorio, leggo su internet che l'unico strumento certo per sapere se anche lui ha la toxo è la funicolocentesi, cioè una sorta di amniocentesi ma che all'ottavo mese di gravidanza è troppo pericolosa per il bambino.
Io, che avevo ormai finito le ecografie di routine, riprendo a farle: non mi diranno se Vittorio è infetto, ma mostrano l'eventualità di danni evidenti (cosa che per fortuna non accade mai).
Intanto anche le IgM, dopo diverse settimane, si palesano. Un buon segnale: vuol dire che quando ho scoperto la toxoplasmosi l'avevo contratta da una manciata di giorni e le IgM non si erano ancora mosse.
Il 13 agosto alle 8 prendo l'ultima pillola, alle 16 partoriscoVittorio e la mattina dopo gli fanno un prelievo da protocollo, per verificare (finalmente) se la toxo sia passata a lui. Solo allora mi arriva la bella notizia: IgG e IgM negative, Vittorio NON HA LA TOXOPLASMOSI.
Veniamo a quello che ho imparato.
Ho imparato di essere stata troppo indulgente con me stessa. Avrei dovuto fare più attenzione a quello che mangiavo, soprattutto alla carne cruda.
Ho imparato che la toxoplasmosi non è un virus ma un parassita. Che il modo più difficile per contrarla è tramite un gatto infetto. Molto più semplice invece prenderla tramite frutta e verdura lavata male. Io non ho certezza sul come l'abbia contratta, ma a posteriori non importa.
Ho imparato che la toxo contratta alla fine della gravidanza, se trasmessa al feto non provoca danni abnormi perché esso è praticamente già del tutto formato, contrariamente a quanto avviene all'inizio della gestazione; ma la placenta nell'ultimo trimestre è più vecchia e logora, dunque è di gran lunga più probabile che il feto contragga la malattia.
In sintesi: nei primi 3/4 mesi se il feto contrae la toxo (cosa rara poiché la placenta giovane fa da filtro) i danni sono enormi e spesso viene consigliata l'interruzione di gravidanza. Invece negli ultimi 3/4 mesi avviene esattamente il contrario: alte probabilità di passarla al feto, ma danni minori (laddove per "minori" si intendono ritardi mentali, sordità, piccole calcificazioni), che solitamente si scoprono a cose fatte, cioè dopo il parto. Se si intravede qualcosa tramite ecografia, in ogni caso non si può far granché.
Ho imparato che la terapia con Rovamicina non cura il feto bensì il contenitore: l'antibiotico infatti non oltrepassa la placenta se non in minime quantità. Lo si assume per neutralizzare la toxo nella madre e far sì che non passi al feto qualora non lo abbia già fatto. Per il feto che abbia sicuramente contratto la toxo c'è l'opportunità di un combinato di antibiotici micidiali, che passano attraverso la placenta.
Ho imparato che qualora il feto abbia contratto la toxo, seppure senza effetti visibili, scatta un protocollo clinico che prevede un prelievo sanguigno immediato alla nascita e poi controlli di vario genere ripetuti nel tempo fino all'età scolare, poiché alcuni danni sono latenti e possono uscire allo scoperto a distanza di mesi o anni.
Ho imparato che la vita di un bambino, la salute di un bambino, valgono più di una disattenzione, di una leggerezza. Ma che lo si scopre sempre troppo tardi. E che puntare il dito contro una donna che sbaglia è il primo degli errori imperdonabili.
giovedì 6 giugno 2013
Tu, mamma come me.
Tu, mamma a cui hanno portato via tuo figlio.
Tu, che hai provato a toglierlo dalla strada della droga e non ci sei riuscita.
Tu che l'hai visto scomparire dietro alle guardie penitenziarie in quell'aula di tribunale per la convalida del suo arresto. E non sapevi che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui lo vedevi vivo.
Tu, mamma che non sapevi come stesse tuo figlio dentro quella struttura protetta dell'ospedale, perché non te lo facevano vedere. Perché "non eri autorizzata". Perché tuo figlio in quelle ore si stava avviando alla morte.
Tu, che per tre anni hai lottato per conoscere la verità. Per sapere chi ha ridotto il tuo ragazzo di 32 anni in quelle condizioni. Per dare un padrone alla mano che te lo ha portato via.
Tu che in udienza, silenziosa, composta, hai guardato con la coda dell'occhio le foto di tuo figlio massacrato. Che hai sentito chiamarlo "tossico, scarto della società, drogato di merda", parole che te l'hanno ucciso due volte.
Tu, che hai ascoltato quella sentenza sempre in silenzio. Quella sentenza che non ti dà un colpevole. Quella sentenza che lo ha ucciso una terza volta, come dici tu.
Tu, Rita Cucchi, che sei una mamma come me. Hai un cuore grande che merita un po' di pace, se mai ne avrà. Solo un po' di pace.
Tu, che hai provato a toglierlo dalla strada della droga e non ci sei riuscita.
Tu che l'hai visto scomparire dietro alle guardie penitenziarie in quell'aula di tribunale per la convalida del suo arresto. E non sapevi che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui lo vedevi vivo.
Tu, mamma che non sapevi come stesse tuo figlio dentro quella struttura protetta dell'ospedale, perché non te lo facevano vedere. Perché "non eri autorizzata". Perché tuo figlio in quelle ore si stava avviando alla morte.
Tu, che per tre anni hai lottato per conoscere la verità. Per sapere chi ha ridotto il tuo ragazzo di 32 anni in quelle condizioni. Per dare un padrone alla mano che te lo ha portato via.
Tu che in udienza, silenziosa, composta, hai guardato con la coda dell'occhio le foto di tuo figlio massacrato. Che hai sentito chiamarlo "tossico, scarto della società, drogato di merda", parole che te l'hanno ucciso due volte.
Tu, che hai ascoltato quella sentenza sempre in silenzio. Quella sentenza che non ti dà un colpevole. Quella sentenza che lo ha ucciso una terza volta, come dici tu.
Tu, Rita Cucchi, che sei una mamma come me. Hai un cuore grande che merita un po' di pace, se mai ne avrà. Solo un po' di pace.
Problemi di pressione
Seconda puntata di "indovina chi si ammala oggi in cantiere".
Recuperato (vivo) il povero Raul - delle cui sorti parlavo qualche giorno fa - e soprattutto ripristinato il suo colorito originale da sessantenne latinoamericano, siamo riusciti nell'impresa di eliminare dalla circolazione il suo prode collaboratore, un tipo cicciottello e apparentemente innocuo ma dalla colata di cemento facile. Che tu ti distraevi un attimo e quello ti murava vivo tra il soggiorno e il bagno. Non è stato semplice spiegargli che volevamo restare in vita almeno il tempo di vedere nostro figlio alla scuola materna. Ed è stata ancora più dura convincerlo che uccidere Raul (il quale lo aveva già prontamente sostituito) lo avrebbe messo nei guai.
Insomma, al posto del potenziale serial killer è arrivato Rafaèl. Con l'accento sulla e, per carità. Ché se lo chiami Ràfael, lui ti guarda torvo. Anche lui amichevole come un calcio sugli stinchi, ma in compenso davvero bravo. Il che, se è un bene per noi che dobbiamo entrare in casa senza che la medesima ci crolli in testa, è un male per tutti coloro che gli gravitano attorno. Una pentola a pressione. Una torva, torva pentola a pressione.
"Chi ha ponido esto tubo? Ah? Chi? Porque esta così storto? Ahi che mal. Yo no laboro asì. Aqui esa tuto fato de mierda."
"Si vabbè signor Rafaèl. Ma ora non andiamo per il sottile. Basta che finisca tutto in tempi decenti."
"Ahi, tempi deccenti, lei abla de tempi deccenti? Ma aqui esta tutto indeccente".
E mentre parla e borbotta e bestemmia in lingua madre, tutto ricoperto di calce, appeso a una scaletta a due metri d'altezza, lo noto. Guardo meglio per sicurezza, sperando di essermi sbagliata, ma no. Eccolo là. L'occhio. Rosso. Ma non rosso normale. Rosso che sembra stia per saltare fuori da un momento all'altro e rotolare giù per la scaletta.
Disperata. immaginandolo già in un letto d'ospedale e coi lavori di casa nuovamente in sospeso, con un filo di voce ripeto la domanda che solo un paio di settimane prima avevo rivolto a Raul.
"Scusi signor Rafaèl, si sente bene?"
"Yo? Sì. Estoy un poco encazzado ma sì. Porque?".
"No, sa... Lo dico perché... Ha un occhio davvero rosso. Ma proprio molto molto rosso. Non è che ha problemi di pressione?"
Avevo fatto la domanda sbagliata alla persona sbagliata. Ormai era troppo tardi.
"Pressiòn? Pressiòn?? Que problemi del pressiòn. Lei pensa que me drogo? Ah? Pensa que me drogo? Yo no me drogo!"
"Ma no... Non vol... Ma signor..."
"Ahi no no no no yo no me drogo eh. Serà la calce, che ne so yo. Ma a lei che glie emporta. Comunque no me drogo eh, que se crede".
"Ah ecco certo la calce. Deve essere stata la calce. Come non detto. Buon lavoro eh".
Mentre me ne andavo veloce, la pentola a pressione ha ripreso a borbottare a pieno ritmo. E io ho pensato che di questo passo l'unica a non uscire fisicamente incolume dai lavori sarò io. Tic nervosi, nella migliore delle ipotesi.
Recuperato (vivo) il povero Raul - delle cui sorti parlavo qualche giorno fa - e soprattutto ripristinato il suo colorito originale da sessantenne latinoamericano, siamo riusciti nell'impresa di eliminare dalla circolazione il suo prode collaboratore, un tipo cicciottello e apparentemente innocuo ma dalla colata di cemento facile. Che tu ti distraevi un attimo e quello ti murava vivo tra il soggiorno e il bagno. Non è stato semplice spiegargli che volevamo restare in vita almeno il tempo di vedere nostro figlio alla scuola materna. Ed è stata ancora più dura convincerlo che uccidere Raul (il quale lo aveva già prontamente sostituito) lo avrebbe messo nei guai.
Insomma, al posto del potenziale serial killer è arrivato Rafaèl. Con l'accento sulla e, per carità. Ché se lo chiami Ràfael, lui ti guarda torvo. Anche lui amichevole come un calcio sugli stinchi, ma in compenso davvero bravo. Il che, se è un bene per noi che dobbiamo entrare in casa senza che la medesima ci crolli in testa, è un male per tutti coloro che gli gravitano attorno. Una pentola a pressione. Una torva, torva pentola a pressione.
"Chi ha ponido esto tubo? Ah? Chi? Porque esta così storto? Ahi che mal. Yo no laboro asì. Aqui esa tuto fato de mierda."
"Si vabbè signor Rafaèl. Ma ora non andiamo per il sottile. Basta che finisca tutto in tempi decenti."
"Ahi, tempi deccenti, lei abla de tempi deccenti? Ma aqui esta tutto indeccente".
E mentre parla e borbotta e bestemmia in lingua madre, tutto ricoperto di calce, appeso a una scaletta a due metri d'altezza, lo noto. Guardo meglio per sicurezza, sperando di essermi sbagliata, ma no. Eccolo là. L'occhio. Rosso. Ma non rosso normale. Rosso che sembra stia per saltare fuori da un momento all'altro e rotolare giù per la scaletta.
Disperata. immaginandolo già in un letto d'ospedale e coi lavori di casa nuovamente in sospeso, con un filo di voce ripeto la domanda che solo un paio di settimane prima avevo rivolto a Raul.
"Scusi signor Rafaèl, si sente bene?"
"Yo? Sì. Estoy un poco encazzado ma sì. Porque?".
"No, sa... Lo dico perché... Ha un occhio davvero rosso. Ma proprio molto molto rosso. Non è che ha problemi di pressione?"
Avevo fatto la domanda sbagliata alla persona sbagliata. Ormai era troppo tardi.
"Pressiòn? Pressiòn?? Que problemi del pressiòn. Lei pensa que me drogo? Ah? Pensa que me drogo? Yo no me drogo!"
"Ma no... Non vol... Ma signor..."
"Ahi no no no no yo no me drogo eh. Serà la calce, che ne so yo. Ma a lei che glie emporta. Comunque no me drogo eh, que se crede".
"Ah ecco certo la calce. Deve essere stata la calce. Come non detto. Buon lavoro eh".
Mentre me ne andavo veloce, la pentola a pressione ha ripreso a borbottare a pieno ritmo. E io ho pensato che di questo passo l'unica a non uscire fisicamente incolume dai lavori sarò io. Tic nervosi, nella migliore delle ipotesi.
martedì 4 giugno 2013
La ventosa no
E poi ci sono quelle cose che no. Non ce la posso proprio fare. Le targhe con la ventosa appiccicate al vetro no.
Informazione di servizio: il fatto che quella cosa orrenda che hai messo dietro dica che hai un bambino a bordo non impedirà in nessun modo alla novantenne rincoglionita alla guida dietro di te di tamponarti sfasciandoti il paraurti della tua automobile nuova. Per quanto concerne la sicurezza di tuo figlio, ti do un'altra dritta: hanno inventato l'ovetto omologato.
Tu, donna che appiccichi ventose al vetro. No. Dai.
Informazione di servizio: il fatto che quella cosa orrenda che hai messo dietro dica che hai un bambino a bordo non impedirà in nessun modo alla novantenne rincoglionita alla guida dietro di te di tamponarti sfasciandoti il paraurti della tua automobile nuova. Per quanto concerne la sicurezza di tuo figlio, ti do un'altra dritta: hanno inventato l'ovetto omologato.
Tu, donna che appiccichi ventose al vetro. No. Dai.
lunedì 3 giugno 2013
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